Il nostro lavoro di approfondimento su alcune delle “missioni” del PNRR – Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza – si basa su una lettura femminista di alcuni suoi aspetti e su ciò che vorremmo cambiasse.
Il PNRR oggi in discussione non rappresenta la discontinuità necessaria e indispensabile in una situazione come quella attuale, discontinuità peraltro accennata, a parole, nella sua premessa. E non la rappresenta anche perché non tiene in conto i cambiamenti sociali e strutturali che ormai sono in essere e che provocano l’inaccettabile distruzione dell’ambiente e l’inaccettabile aumento delle iniquità e delle disuguaglianze, solo per citarne alcuni.
L’attuale crisi é nata da uno squilibrio dell’organizzazione sociale e dalla crisi della sua riproduzione, da anni di privatizzazioni e di riduzione del bene pubblico a business, di mancanza di cura e di diritti, in nome della supremazia del mercato e dell’economia.
Ormai tutti noi non siamo più considerati soggetti titolari di diritti ma individui autonomi, produttori e autosufficienti.
Non possiamo permettere che l’organizzazione della società sia prerogativa solo del maschio bianco, benestante che gode dei suoi privilegi di classe e patriarcali, sotto l’egida di un neoliberismo che sa trasformarsi velocemente.
Non è più possibile programmare la produzione senza prendersi carico della riproduzione delle persone, dell’ambiente e del mondo possibilmente in pace.
Noi donne lo sappiamo bene. Le persone si formano nella relazione con gli altri, non sono monadi.
Di conseguenza, anni di elaborazioni femministe sui “lavori di cura” ci portano a riaffermare a gran voce che tutta la riproduzione sociale non può più essere messa in capo alle sole donne ed essere considerata un lavoro marginale fatto gratuitamente nelle case o facente parte delle professioni più umili, senza diritti e malpagate.
Sappiamo che il grosso peso di questa pandemia lo hanno sostenuto le donne i cui lavori hanno sostituito, come potevano, la carenza di infrastrutture sociali pagando un prezzo altissimo in termini di stress, estromissione di molte dal mercato del lavoro e di violenza domestica.
Questo PNRR ha un orizzonte miope. La trasversalita dichiarata dei soggetti rischia di essere spesso una mera dichiarazione in assenza di politiche precise e risultati attesi. Troppi sono i contenitori vuoti!
Come se con un po’ di crescita il mercato riequilibrasse da solo le disuguaglianze che lui stesso ha prodotto.
Nel PNRR le politiche di genere vengono in più punti confuse con le politiche per le famiglie (che però continuano a essere nominate per la famiglia) e considerate una cosa sola.
Le donne non sono “famiglia” ma sono soggetti di diritti, tra cui il diritto al lavoro e alla propria autodeterminazione.
La mancanza di cultura femminile e socio-culturale rende il PNRR totalmente inadeguato ad affrontare ciò che si potrebbe programmare per una reale riscrittura del patto sociale che vorremmo mettesse le basi per una possibilità di vita migliore per questa e per le prossime generazioni.
Occupazione femminile
Questa crisi, definita “crisi della cura e della riproduzione”, ha messo in evidenza la fragilità di una organizzazione sociale che lascia le donne, le loro intelligenze, le loro risorse fuori dal luoghi decisionali della organizzazione sociale.
La parità di genere sul fronte occupazionale presuppone un cambiamento profondo di questa organizzazione sociale, attraverso una serie di investimenti pubblici che rimuovano gli ostacoli alla piena partecipazione delle donne nei lavori e nelle decisioni.
Ricordiamo che quando le donne sono entrate nel mercato del lavoro un po’ più numerose, con i loro saperi, i loro bisogni e rivendicazioni, hanno sempre apportato benefici per tutti.
Il tasso di occupazione femminile (evidenziato anche nel testo del PNRR come indicatore da migliorare) in Italia, nel 2019, era pari al 50,1%.
L’obiettivo Ue per il 2020 era il 60%.
Stante la situazione del nostro Paese, come pensiamo di raggiungere quel 60% e in quanto tempo?
L’aumento dell’occupazione delle donne, che dovrebbe (così è dichiarato) essere un obiettivo prioritario e trasversale del piano, non viene per ora declinato in obiettivi misurabili nella programmazione degli interventi. Questo è un grave limite che non consente di valutare la congruità e l’aggiustamento degli interventi su questo obiettivo, nè i tempi in cui l’obiettivo può essere realizzato. E’ come se tutto fosse finto!
Un grande investimento sul welfare sociale in tempi brevi, oltre a riqualificare il lavoro di cura, rappresenta una grande occasione di occupazione immediata per le donne che su questo hanno saperi e sensibilità.
Nel settore della cura sono presenti molte donne migranti spesso precarie o con contratti a giornata o a ore. Sono necessarie politiche di stabilizzazione maggiore del lavoro e del salario.
Le politiche di decontribuzione e defiscalizzazione hanno mostrato la loro inefficacia. Hanno portato precarizzazione. La politica dei bonus e dei trasferimenti monetari non funziona. Non può essere politica di conciliazione e non deve essere sostitutiva di servizi essenziali, magari poi forniti dal privato con evidenti diseguaglianze e sfruttamento di vario tipo. (altra cosa è la politica di contrasto alla povertà e non va confusa).
Occorre favorire con misure concrete (cioe con stanziamenti a bilancio) la ripartizione dei lavori di cura all’interno dei nuclei familiari. Il che significa prevedere l’aumento e l’obbligatorietà per tutte/i dei congedi parentali, anche per i padri nei primi anni di vita delle/dei figlie/i.
Alcuni di questi congedi devono essere usufruibili contemporaneamente da entrambi i genitori per la gestione comune della prole.
Occorre favorire con misure concrete (cioe con stanziamenti a bilancio) la condivisione della gestione delle persone fragili all’interno delle famiglie.
Tutti i periodi di congedo devono essere contabilizzati ai fini pensionistici per determinare l’anzianità contributiva, l’età pensionabile e l’importo della pensione.
Formazione e politiche del lavoro
Importanti sono le politiche pubbliche di formazione e l’analisi dei fabbisogni affidati ai Centri per impiego.
Nel PNRR si dice che devono essere potenziati, ma come? Con i navigator precari?
I Centri per l’impiego non dovrebbero più solo analizzare le richieste dei profili eventualmente provenienti dalle imprese ma potrebbero diventare incubatrici per definire, nel confronto collettivo fra vari soggetti, bisogni e professionalità richieste sia dal privato che dal settore pubblico, in particolare pubblica amministrazione e sistemi di welfare.
Però non basta. Qual è il soggetto che poi si occupa dell’incontro domanda – offerta e che cerca di garantire nel lavoro ingressi dignitosi dopo la formazione, possibilmente senza inserire stereotipi di genere nei criteri di selezione?
Oggi i centri per l’impiego, per quanto possiamo conoscere da nostre esperienze, si occupano quasi esclusivamente degli inserimenti delle categorie protette.
Lasciamo tutto all’intermediazione privata sul mercato del lavoro?
Da chi sono fatti gli algoritmi per la selezione del lavoro? Prevalentemente fatti da uomini. Quanto incidono sull’esclusione delle donne e dei loro saperi?
C’è la necessità di ripristinare un sistema pubblico o di coordinamento pubblico di intervento sul mercato del lavoro, di incontro domanda-offerta con politiche attive del lavoro e formazione che abbia anche un occhio ai saperi delle donne oltreche alle loro competenze e che veda anche nelle sue strutture decisionali, donne che hanno lavorato sulle tematiche di genere.
Lavori flessibili
La digitalizzazione può aumentare le disuguaglianze anche tra i generi se non c’è un intervento attivo nella formazione e nel monitoraggio degli effetti e proposte di eventuali correttivi. Può portare accentramento o diffusione delle conoscenze.
La digitalizzazione porta anche con se possibilità di lavori diversi e più flessibili. Ma, attenzione, per le donne si può trasformare in una nuova gabbia, strette tra lavoro di cura in famiglia e contemporaneo lavoro produttivo. Lo smart working emergenziale (in realtà homeworking) è
stato una vera trappola per le donne ed è da rifiutare come politica di conciliazione. Questo anche perchè in tal caso porta con se’ dequalificazione e penalizzazioni di carriera.
Sebbene possa diventare una opportunità, per chi lo sceglie, è difficile pensarlo per chi ha fatto del luogo di lavoro uno dei luoghi importanti per la socializzazione, per lo scambio di conoscenze, per la presa di coscienza dei diritti e della solidarietà, per l’amicizia.
Soprattutto perchè diventi una opportunità, magari anche solo per evitare lunghi viaggi a chi lavora lontano dall’abitazione o altro, è necessario che sia una scelta e che siano rispettate le stesse indicazioni date dal legislatore sul lavoro agile, nel senso dell’autonomia del lavoro e nella gestione degli orari.
Lavorare di più per obiettivo? E’ altresì importante che ci siano luoghi di co-working per evitare l’isolamento e magari non per tutti i giorni la settimana.
Valorizzazione dei lavori di cura
Il lavoro di cura, svolto prevalentemente da donne, è tra i lavori meno pagati e spesso svolti in nero, quindi senza tutele. E’ anche un lavoro totalmente non riconosciuto e remunerato qualora sia svolto tra le mura domestiche, sempre prevalentemente da donne, che in questo modo si prendono cura dei loro affetti.
In questo ambito lavorano molte donne migranti. Molte di loro sono precarie.
Si rendono pertanto necessarie politiche di stabilizzazione del lavoro. E’ da prevedere una riforma nazionale del lavoro degli assistenti familiari che inserisca questa professione nei servizi socio-sanitari territoriali, prevedendo un percorso professionalizzante pubblico.
Valorizzare e favorire il lavoro delle donne migranti significa anche l’apertura della loro partecipazione ai concorsi pubblici in base alla residenza e non alla cittadinanza, facilitare il riconoscimento dei titoli di studio, borse di studio e incentivi alla formazione a loro dedicata.
E’ necessaria una revisione innovativa del sistema degli appalti pubblici nel settore dell’istruzione, sanità e assistenza con clausole che prevedano la garanzia di lavori stabili retribuiti dignitosamente, valorizzando quindi a livello salariale i lavori svolti prevalentemente dalle donne che, soprattutto in occasione della pandemia, si sono evidenziati come essenziali.
Segregazione lavorativa e formativa
Valorizzare i lavori che le donne oggi fanno e contemporaneamente contrastare la segregazione lavorativa delle donne a partire anche dall’istruzione.
Favorire per le ragazze dei percorsi, sia alle superiori sia all’università, di carattere tecnico-scientifico con opportune politiche (che però non si intravedono nel piano). Si potrebbe ad esempio premiare, con fondi di ricerca o fondi aggiuntivi su progetti, istituti o università che
fanno della parità di genere nelle iscrizioni un loro obiettivo, che prevedono azioni formative e altro per rimuovere stereotipi di genere presenti in ambienti tradizionalmente maschili.
Anche qui, nel settore dell’istruzione, è necessario rivolgere uno sguardo alle donne migranti. Molte, già adulte, sono desiderose di un riscatto dalle loro storie, spesso tragiche, attraverso l’istruzione e la ricerca di un lavoro dignitoso. Sono donne tra i 25 e i 35 anni. Abbiamo visto, nella nostra esperienza, che mentre per l’università qualche borsa di studio si trova, per le scuole superiori non si trovano supporti economici per fare un percorso di studi. Sarebbero su questo necessari interventi ad hoc, magari attraverso qualche apposito fondo.
Favorire l’ingresso massiccio delle donne nella ricerca medica e scientifica anche attraverso un orientamento scolastico che incentivi e stimoli interessi in tal senso. Le donne sono mediamente piu brave negli studi e più scolarizzate degli uomini. Senza le donne che entrano in modo massiccio in posti decisionali della sanità e della ricerca medica non ci può essere medicina di genere, che non deve essere un aspetto di nicchia ma deve investire il sistema sanitario tutto. La legge sulla medicina di genere e il piano di applicazione sono stati approvati ma se non si finanziano sia la formazione del personale sanitario in merito a questo approccio sia la ricerca, il tutto resta inapplicato.
A proposito della segregazione lavorativa perché non favorire, oltre alla mobilità delle donne in settori ad oggi più maschili, anche l’ingresso del genere maschile nei settori tradizionalmente femminili come istruzione e cura? Questo potrebbe essere sperimentato con un grande piano
di servizio civile universale, molto più ampio di quello prospettato nella missione e con maggiori risorse.
La mobilità di genere nel lavoro potrebbe anche ridurre il cosiddetto gender pay gap.
Contrasto alla povertà delle donne
Molte donne, nella loro vita, hanno dovuto rinunciare al lavoro per accudire bambini e anziani in mancanza di soluzioni alternative e si trovano oggi con pensioni minime insufficienti per condurre una vita dignitosa. Per questo sono necessarie misure per prevenire e combattere la
povertà delle anziane/i con l’introduzione di nuovi criteri che riconoscano, oltre la maternità, anche il lavoro di cura ai fini della determinazione della contribuzione utile per il diritto al pensionamento. I nuovi criteri devono riguardare anche la rideterminazione dell’età pensionabile.
Governance degli interventi
Non sappiamo ancora a chi sarà affidata la governance del piano ma qualunque sia è indispensabile che siano inserite donne esperte di politiche di genere con il compito specifico di valutare e monitorare tutti gli indicatori riferiti alle politiche di genere, dall’impatto occupazionale a tutti gli altri aspetti, su ogni missione e per tutto il corso degli interventi del piano.
Gennaio 2021
In anteprima: ‘Lavoro e lavori: 35 giorni alla Fiat -1980 – Le Donne’. Fotografia di Giò Palazzo, tratta dalla Mostra “La lotta infinita” – Circolo Risorgimento, Via Poggio 16 Torino – 8 -11 ottobre 2020