Intervenire sulla vicenda relativa alla Fiera del Libro di Torino 2008 ci sembra a continuo rischio di fraintendimenti. Ci pare infatti che il dibattito si sia polarizzato sulla questione del “boicottaggio” anziché sul significato dell’invito allo stato di Israele che secondo noi è il vero nodo del problema.
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Sentiamo però la responsabilità di esprimerci a partire dalla storia che ci lega ormai da vent’anni ad una pratica di relazioni con donne israeliane e palestinesi: relazioni non sempre facili, segnate anzi spesso dalla difficoltà di riconoscersi nelle differenze senza che queste si cristallizzino in contrapposizioni insuperabili. Difficoltà tanto maggiore perché siamo tutte consapevoli che non c’è simmetria nella situazione in cui ciascuna si trova: proprio per questo il nome che noi abbiamo assunto è quello delle “donne in nero” israeliane che hanno posto al centro della loro identità politica la denuncia dell’occupazione dei territori palestinesi da parte del proprio stato.
“Non posso dire di non sapere” è la ragione profonda che induce molte di loro, e noi insieme a loro, a sentirci in dovere di guardare e di vedere che cosa hanno significato il 1948 e il 1967 per entrambe le società che vivono in quell’area e che cosa sta accadendo tuttora, quando il Muro di separazione, la crescita degli insediamenti, l’assedio di Gaza, le uccisioni, le distruzioni rendono sempre più fragili le speranze in una pace giusta.
Riteniamo perciò che vada prestato serio ascolto alle parole di Suad Amiry, intellettuale palestinese, che intervenendo sulla questione ha scritto: “La Fiera del Libro di Torino non si è limitata a scegliere come ospite d’onore l’occupante, ma ha invitato l’occupato (persone come me) a partecipare alla celebrazione del giorno della sua indipendenza” (La Stampa, 01.02.08). È tale lo squilibrio insito in una simile impostazione che sentiamo il dovere di fare nostra la domanda posta da Remo Ceserani: “Come si fa a pensare di chiedere a dei palestinesi di prestarsi a celebrare, anche solo implicitamente, l’anniversario della fondazione dello Stato di Israele?” (il manifesto, 30.01.08).
In una lettera di risposta a Ibrahim Nasrallah, poeta palestinese che anche ha scritto di non poter accettare l’invito alla Fiera, il direttore della Fiera stessa, Ernesto Ferrero, ha affermato: “Non si può parlare di Israele senza parlare di Palestina” (Ansa, 23.01.08). Ne siamo convinte, ma dubitiamo che lo si possa ritenere onestamente possibile alla luce del percorso seguito: sul sito della Fiera in data 18 dicembre 2007 compariva la frase “In occasione della ricorrenza del 60° anniversario della sua fondazione, Israele ha scelto Torino come la vetrina più adatta …. ” mentre il presidente della Fiera, Rolando Picchioni, ha poi dichiarato: “E’ stato Israele che si è offerto. E noi abbiamo accolto la sua candidatura con entusiasmo, trattandosi di un paese e di una cultura con molte cose da raccontare” (Ansa, 23.01.08).
Dunque si è trattato chiaramente di un fatto politico e di una scelta di parte: “Quando un conflitto è in atto, dimostrare segni di solidarietà con una sola parte si chiama prendere parte. Festeggiare l’anniversario della creazione dello stato di Israele invitandolo come ospite d’onore alla Fiera del Libro di Torino, oggi poi nella situazione terribile che vive il popolo palestinese, è una presa di posizione netta e chiara” (Karim Metref, lettera aperta “Israele ospite d’onore. Non è né il luogo né il momento”, febbraio 2008).
A nostra volta intendiamo esprimere una “presa di posizione netta e chiara” contro le illegalità, le violazioni dei diritti umani, il continuo uso della violenza operato dallo stato di Israele, con il suo governo e il suo esercito, ed è per queste ragioni che critichiamo la scelta fatta dalla Fiera del Libro e consideriamo un’ingiustizia e un errore insistere in una modalità che prevede “la forma-nazione come costitutiva delle identità della Fiera” (Ester Fano, il manifesto, 30.01.08).
Questo però non significa affatto il rifiuto o la censura degli scrittori e delle scrittrici provenienti da Israele: ognuno e ognuna potrà portare un punto di vista e un’esperienza del mondo che certo contiene anche valenze politiche con cui va tenuto aperto il dialogo e il confronto, mentre non ci pare accettabile ascriverle/i alla celebrazione di un evento di stato sul quale gravano tuttora troppi problemi insoluti.
Vogliamo inoltre riportare una dichiarazione rilasciata da Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, che, dopo aver ribadito di non voler “arretrare di un millimetro. Israele è stato scelto come stato ospite e deve rimanere tale”, ricorda la “tradizione di tolleranza” della “città di Primo Levi” (La Repubblica, 04.02.08). Quanto a “tradizione di tolleranza”, dubitiamo che il sindaco di Torino l’abbia sempre presente come un principio inderogabile cui attenersi: mesi fa abbiamo infatti avuto esperienza diretta del caso di vera e propria censura che ha riguardato la raccolta di scritti “Israele/Palestina, Palestina/Israele, sussidio informativo”, Comune di Torino 2006, curata e proposta per le scuole da alcuni gruppi pacifisti e ong torinesi e pubblicata a cura del Comune di Torino. Dopo forti critiche da parte della comunità ebraica locale e dopo un intervento dell’ambasciatore israeliano, il sindaco ha disposto che la distribuzione del volume cessasse e nei primi mesi del 2007 esso è sparito dalla circolazione e inutili sono state le richieste di confrontarsi nel merito dei dissensi e delle critiche, come un atteggiamento aperto al dialogo invece vorrebbe.
Ancor più profondamente ci sentiamo però toccate dal richiamo a Primo Levi. Tra le ragioni per cui lo ricordiamo come una figura di straordinaria intelligenza e umanità c’è anche la lucidità e il coraggio con cui nel settembre del 1982, dopo la strage di Sabra e Chatila, egli affermò: “Dobbiamo soffocare gli impulsi di solidarietà emotiva con Israele per ragionare a mente fredda sugli errori dell’attuale classe dirigente israeliana” (Primo Levi, La Repubblica, 24.09.1982). Non possiamo sapere come si esprimerebbe oggi Primo Levi di fronte alle “punizioni collettive” che soffocano la popolazione della Striscia di Gaza sotto assedio, ma sappiamo che la Città di Torino, da anni gemellata con quella di Gaza, non ha preso alcuna iniziativa di solidarietà e questo a noi pare un penosissimo venir meno a ogni senso di umanità.
Tornando ancora una volta a quello che riteniamo il nodo politico ineludibile, è proprio la violazione di un senso condiviso di dignità umana ciò che induce le/gli invitate/i palestinesi al rifiuto a partecipare alla Fiera nei termini attuali: “Nel giorno della loro Nakba (catastrofe) i palestinesi spererebbero in una reazione di umanità, ricevono invece la vostra decisione che non prende in considerazione l’ingiustizia e la sofferenza” (Ibrahim Nasrallah, il manifesto, 30.01.08).
Quali atti vanno compiuti perché la Fiera possa davvero costituire un’occasione di confronto e di dialogo, anziché di rinnovate barriere e esclusioni? A conclusione dell’intervento che citavamo sopra, Suad Amiry – con una mossa di grande generosità, perché è ben difficile per “l’occupato” guardare imparzialmente all'”occupante” – rivolgeva alla Fiera del libro l’invito a “essere abbastanza coraggiosa da lasciar perdere tutto, ‘Indipendenza’ e ‘Nakba’ e celebrare un’autentica attività culturale di cui tutti possiamo fare parte. Quest’anno non c’è bisogno di ospiti d’onore”.
Facciamo nostro l’appello e di qui a quando si terrà la Fiera intendiamo continuare a denunciare l’ingiustizia di un invito che celebra la metà vincente di una storia e a prendere tutte le iniziative di cui saremo in grado per dare voce più ampia alla richiesta che sia finalmente riconosciuto il diritto anche delle donne e degli uomini palestinesi a una vita degna e a una parola libera.
Torino, 12 febbraio 2008
Donne in Nero della Casa delle Donne di Torino